In questo periodo incerto, più adesso che durante la “prima ondata”, in studio trascorro gran parte del tempo a ragionare sulla transitorietà dell’essere; su quanto le ambizioni siano condizionate – agevolate o compromesse – dalle coordinate geografiche e dal periodo storico in cui veniamo al mondo; sul senso di impotenza di fronte a qualcosa che va ben oltre la responsabilità personale; su quanto la malattia e la morte stiano lì, spettatrici silenti, come ombre sul nostro cammino.
Se prima del coronavirus, la temporaneità della nostra esistenza restava più sullo sfondo in una seduta di psicoterapia, oggi ne ricopre un ampio spazio. Spesso non ne siamo pienamente coscienti e allora si fanno spazio certi sintomi ed emozioni: insonnia o ipersonnia, inappetenza o aumento dell’appetito, irritabilità, insofferenza, difficoltà nella concentrazione, costrizione alla gola e difficoltà a respirare, sensazione di avere come un peso sul petto, angoscia che fa sentire un incolmabile buco allo stomaco, paura, ansia, disperazione, preoccupazione …
Molti raccontano di vivere con la sensazione costante che una minaccia dai contorni indefiniti piombi nella loro vita e ne cambi tragicamente la traiettoria.
Sensazione spesso correlata agli effetti secondari del coronavirus: la perdita o la sospensione/riduzione del lavoro (o dello stipendio); la perdita di amici o familiari o conoscenti; il distanziamento dai familiari più fragili; l’interruzione di molte attività ricreative; la difficoltà a ricoprire più ruoli (di lavoratore e di genitore, ad esempio) quando alcuni servizi vengono sospesi (per contagio o solo in via precauzionale)…
A differenza della scorsa primavera, quando ci sentivamo più protetti dalle mura domestiche e da un timido ottimismo, oggi la minaccia accompagna la quotidianità che, pur arrancando, prova a resistere: i positivi con o senza sintomi sono in mezzo a noi. Il coronavirus colpisce non solo sconosciuti ma amici, figli, colleghi, parenti, conoscenti e noi stessi. Ci sentiamo minacciati e minaccianti, sopraffatti, esposti a qualcosa di così fatale da stravolgere rapporti personali e progetti esistenziali.
Chi più e chi meno, facciamo sacrifici, cambiamo abitudini, proviamo rabbia, sconforto e paura. Infatti, l’esperienza del lockdown e lo scombussolamento emotivo che ne è scaturito, la corsa a tamponare i danni economici, la psicosi delle vacanze estive ed il graduale ripartire delle attività e dei contagi, ci hanno portato oggi a star come d’autunno sugli alberi le foglie: acrobati sfiancati su di un filo sottile teso sull’abisso.
La meta però è ancora lontana. E noi, in bilico tra un passato bramato ed un futuro sconfortante, non possiamo fare altro che reclutare tutte le risorse per mantenersi attenti e uniti su ciò che c’è da fare per garantirsi un domani dignitoso.
UNITI
Oggi sarebbe necessario sentirsi umani, appartenenti alla stessa specie prima che specificarsi italiani, americani, francesi, indiani, congolesi, russi, cinesi o turchi.
A cosa potremmo aggrapparci per non perdere l’equilibrio (e la speranza) e non abbassare la guardia mettendoci ancor più in pericolo?
Io personalmente mi concentro sulle piccole cose del passato che più mi mancano e immagino che la meta, al di là dell’abisso, custodisca quei magnifici elementi: la lettura del giornale al bar, i viaggi spensierati organizzati all’ultimo istante, gli abbracci con gli affetti più cari, le strette di mano poderose, le scampagnate con gli amici, i sorrisi, le partenze affollate nelle gare su strada…
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